NATAN, il cui nome completo è Natan Rondelli è un giovane musicista bolognese, ma che può definirsi, grazie alla sua capacità di apportare al rock influenze sinfoniche e psichedeliche, un artista internazionale; i suoi riferimenti musicali, non a caso, vanno a ritroso, fino agli anni ’70 e oltre, quando band come Pink Floyd, Jetro Tull e Led Zeppelin, hanno scritto la storia del rock e di tutto ciò che dal rock, ha preso forma e colore. Tuttavia quella di Natan è una musica aperta alle più inconsuete sperimentazioni, in un groviglio di chitarre che, incrociando gli archi e i sintetizzatori, sanno districare inedite soluzioni sonore.
A due anni di distanza, Natan Rondelli fa il suo ritorno con un nuovo album di inediti dal titolo “NEW EYES”, un Ep che fin dalla prima traccia, ci catturati verso sonorità eteree, dove l’influenza del progressive rock di matrice anglosassone , lascia che le chitarre elettriche, come pezzi di vetro sfregiato, scaraventino il loro stridore contro un’atmosfera raccolta, ma senza compromettere la trasparenza di un suono limpido e cristallino, la cui cura negli arrangiamenti non lascia opaco nemmeno per un istante.
La musica di Natan è fatta di chiaroscuri: nella traccia di apertura “In you eyes” la luce è in parte oscurata da un’inquietudine sottesa all’incertezza di guardare più in là, e che sembra rispecchiare gli occhi di un’anima oppressa dal passare del tempo e, in questo brano più di tutti, risalta la vena pinkfloydiana, che si estende fino a comprendere l’immenso territorio contaminato dal rock psichedelico. “Wave of love” è un’onda placida e distesa di sentimento dove l’organo in sottofondo, apporta un’aura sacrale e di tono mistico, innalzando un canto aurorale in pieno stile Sigur Ross. Il tempio citato nel brano sembra ostentare qui tutta la sua solennità, in una distorsione di chitarre, dove le corde si arrovellano su se stesse come i sensi di colpa di quell’anima che non ha ancora espiato le sue colpe. La travolgenza di quest’onda d’amore sembra scaraventarsi tra gli scogli per farci ascoltare un suono roccioso, la cui purezza dell’acqua salmastra, erode poco a poco, lasciando scandagliare quegli ostacoli lontano da noi, mentre ancora increduli, fissiamo l’orizzonte.
E’ inconfondibile il contributo degli archi nell’intero repertorio di Natan, ed ecco come in “Birds” li avvertiamo mentre sembrano abbracciare un’oscurità di cui riusciamo a percepire la voce, un urlo inquietante e sommesso che a poco a poco, emerge da quelle onde, da quel mare di oscurità in cui non è riuscita a disperdere la sua potenza. Quell’orizzonte prima solo scrutato, ora possiamo toccarlo, e prendere il volo proprio come uno stormo di uccelli che si librano nel vento, trasportati dalla suggestione musicale apportata anche dai sintetizzatori. Un archiettetura musicale questa che, nell’apparente contrasto con gli archi dell’intro del pezzo, crea una perfetta armonia attraverso le corde vocali di Natan e quelle delle chitarre che verso la fine, proprio come ali, amplificano un suono di cui a tratti avvertiamo l’eco.
A discapito di ogni aspettativa, facendo vivere e assaporare la sperimentazione allo stesso ascoltatore, “Goodbye” ci saluta con un sound decisamente più grezzo, dove l’elettronica lascia il posto ad una strumentazione più rustica, accostabile ad un country rock, con decisi rimandi folk.
Non a caso, il tema musicale, persegue quello interiore: fuori e dentro che si rispecchiano e la spensieratezza di un paesaggio di campagna o di una strada che attraversa il deserto dell’ Arizona, verso cui ci accompagna “Goodbye”, sembra lasciarsi alla spalle ogni traccia del tormento di prima. Lo stesso timbro di voce diventa più rude e sabbioso, avvicinandosi a quello di Ben Harper e la scenografia musicale, con tutte le influenze e contaminazioni è qui tutta americana: lì dove i grandi maestri del genere, fra i tanti Bob Dylan e Neil Young, hanno aperto una strada, poi perseguita anche dai fautori del rock‘n roll, nonché da uno sperimentatore del suono come Natan Rondelli, che non poteva esimersi dall’ossimoro musicale tra la scabrosità del folk e l’eleganza degli archi, legando poi il tutto con la moderna elettronicità del synth. Quel debole alito di vento del country rock, che prima si respirava, soffia ora a gran voce in “Live in my soul”, con un riverbero anche nella batteria che scandisce spietata fina dall’inizio, un pezzo energico, a momenti contrastante con il falsetto di Natan, mettendo in pratica la lezione del buon Thom Yorke.
L’anima inquieta sfila ora impavida in un sentiero sterrato tra un cantato acuto degno dei Radiohead e una calibrazione vocale più sporca che ricorda i migliori Oasis e che ben si staglia sullo sfondo del rock inglese.
Un disco di indubbio alto livello sonoro, dove il turbinio di contrasti si riassetta in uno scenario di sperimentazione allo stato puro, dove la suggestione ripercorre una traccia dopo l’altra.
Visionario.
Sonia Bellin