I “SOGNI DI PERIFERIADEI NETRILAREDO

Si tratta del primo album in studio della band toscana, che risponde al nome di “NETRI E LAREDO”, un progetto nato nel 2015, su suggerimento di Federico Poggipollini (chitarrista di Litfiba e Ligabue), dall’unione del cantautore Riccardo Netri e dei musicisti Simone Manescalchi, Daniele Bulleri e Roberto Ferretti, tutti con diverse esperienze musicali alle spalle in ambito rock.

Dopo la pubblicazione del primo singolo “Per niente facile”, nel 2017 la band prende parte a numerosi festival e concorsi, tra cui Sanremo Rock, dove arriva finalista. Nel febbraio 2019 pubblicano il loro primo album “Sogni di Periferia” su etichetta Latlantide e distribuzione Edel.

La traccia che apre il disco coincide con il primo singolo della band, il brano che se, musicalmente parlando, rappresenta un ottimo compromesso tra rock melodico e canzone d’autore, ha nel suo significato apparentemente criptico, la vera essenza dello stile dei Netri: il coraggio di guardare in faccia alla propria parte più oscura, alle proprie paure, con la convinzione che i nostri fantasmi, sono le nostre stesse inquietudini, le quali vanno riconosciute in quanto tali permettendoci così, in qualche modo , di neutralizzarle.

Proprio come una fresca “Pioggia d’estate”, ecco che parte la seconda traccia, una sorta di rivincita dopo il pezzo precedente, in cui nonostante tutto, nonostante l’afosità delle nostre lotte interiori, ci sono momenti in cui possiamo respirare,  lasciarci ravvivare dalla limpidezza dell’acqua che sgorga da un cielo non sempre avverso, “Pioggia d’estate sui nostri volti nuova vita soffierà, Abbiamo uniti i nostri voli per non restare più da soli”. Si innesca una batteria in un sfondo elettrificato dalle chitarre, per poi lasciare che un lungo assolo funga da special ( “Se il vento spingerà le nostre vele e potremmo riposare

Portati via dall’impeto del mare”).

Da cantare a squarciagola ovunque, grazie anche al contributo di un coro trascinante, è la traccia intitolata “Lo facciamo noi il film”, pezzo che ci cattura già al primo ascolto: “La vita di ogni giorno si fa sempre più dura…arrivare a fine mese è quasi un’avventura e ci chiudono in casa e non ne usciamo più e non c’è niente alla tv”. Liberatorio più che mai l’inciso, con un riff che intercorre ad intervalli regolari. “Lo facciamo noi il film, con la gioia  che ci esplode   dentro ed il televisore spento” sembra in effetti che tutto il vigore, la nostra energia divampi come una fiamma, riscaldata dai sussulti della potenza musicale, tutto è tenuto da una batteria decisa, che tiene corda a quella delle chitarre.

A ritornare anaforicamente un desiderio, esposto attraverso quel “vorrei”, per il secondo singolo estratto dall’album “Amore tattile” Una ballad di puro rock melodico, intervallata da dispiegamenti di chitarra adagiati su una batteria meno prorompente rispetto al resto dei brani contenuti nel disco, ma che non arrestano una battuta ad ogni verso.

A riportarci  nella giungla rockeggiante dei Guns ‘n’ Roses, dandoci il benvenuto con un caldo riff inziale, arriva “May day” , un pezzo dall’andamento sincopato, un vero circuito hard rock che ci scaraventa dentro l’essenza del genere, con un botta e risposta tra batteria e chitarra che ostentano tutta la loro fulgida  potenza .

“Nel mio monolocale” è un susseguirsi di immagini, istantanee di momenti vissuti per m riflettere sull’avvenire:  “Vorrei riavvolgere quel nastro…cancellare l’istante in cui, hai dato una svolta al nostro rapporto, al futuro che desideravo”, .a volte non decidiamo qualcosa, eppure dobbiamo per forza far fronte a tutte le conseguenze che ne derivano; ci si appella di continuo ad un’esigenza di verità, tuttavia, quando essa appare nuda difronte a noi, essa ci spaventa “Non riesci a capire che a volte a salvarmi è una bugia?”, un sapore amaro che non togliamo dal nostro palato, un peso insopportabile, per il quale, se potessimo tornare indietro, preferiremmo talvolta controbattere ad una finta verità, o ad una bugia travestita. Il taglio musicale  è quello del rock anni ’90, dove vige anche un assolo inebriante, il quale scaraventa ogni certezza, tranne quella della salvezza che avviene anche quando i sogni sono infranti, in quell’istante, ecco che possiamo comunque chiuderci dentro il nostro monolocale, uno spazio ristretto certo, ma che più di ogni altro luogo è in sintonia con la nostra intimità. Siamo noi a 360°, senza filtri, dove uno specchio rifletterebbe ogni porzione di spazio, con noi come soggetto; e proprio lì, in quella piccola porzione di spazio, si fanno largo i nostri desideri più nascosti, dove nessuno può varcare la soglia, se non siamo noi a permetterlo, posizionando quando e quanto volgiamo il cartello “Non disturbare”.

E a mantenerci nel palco della scena rock italiana, inseguendo quel filone poi rinnovato anche da Ligabue, arriva “Sono una star”, rock nella musica, rock nello stile:

“Quanto soldi servono per fare degli eroi, metti un post paga il conto e arrivi dove vuoi, Non cè fila in questo cielo se guardi dove sei, paga un pò di più potrai avere anche lei…” ; tutte le controversie della vita da palco appunto, quella di una vera rock star, che deve fare i conti con il business dietro alla voglia di suonare e di esprimersi attraverso la musica; primo fra tutti, il mancato investimento da parte dell’industria discografica, in chi si mette in gioco con la propria creatività e quindi la necessità degli artisti di auto-promuoversi senza poter contare su nessuno. Diventa allora necessario  conciliare magari anche solo un’apparente vita da star, con quella di tutti i giorni “Se suona la sveglia poi mi gira la testa, devo correre in fabbrica”, perché è facile dare l’impressione oggi come oggi, con social network a disposizione di tutti, di essere qualcuno, ma l’amara realtà è lì dietro l’angolo. Ecco quindi che il rock prende una delle sue forme più riuscite nel corso della sua storia, ossia quella della canzone di protesta, inaugurata anni or sono da Bob Dylan.

Con “Sola” siamo al confine tra il rock italiano e quello di stampo americano, immesso da un’atmosfera più distesa che si allinea alle ballate rock anni ’80; la vocalità stessa, manifestata da Riccardo ci ricorda Jon Bon Jovi-,con una versatilità timbrica, da parte del vocalist dei Netri e Laredo, capace davvero di dare voce al rock in ogni sua componente. Ma questa non è una ballad qualunque, o almeno, non è “La ballata semplice” che chiude il disco, “Sola” è una brano travestito da ballad, ma che racchiude in sé una storia. I Netri diventano qui dei cantastorie, alla maniera folk, ma in chiave rock “Qualcosa è andato storto, è il lato oscuro della notte, quando accendono le luci, ti riprendi e non ti piaci….” Un brano dedicato agli errori, a quanto possono bloccare il nostro essere noi stessi, “Devi essere all’altezza di ogni gesto e di ogni sbaglio, ti senti sola come me ed hai paura….” L’incapacità di cancellare alcuni errori, ma la possibilità di superarli, di poterli arginare dal nostro cammino: certi passi compiuti ci portano in strade che non vorremo mai avere attraversato , eppure, anche quel tratto è il risultato del nostro itinerario e occorre smettere di guardarsi indietro oppure tentare di intravedere il buono che abbiamo raccolto in quel preciso momento.

E’ tempo ora di spingere un po’ l’acceleratore con “Non è colpa del rock”  dove si schivano passaggi non distanti dagli Ac /Dc, anche per il tema del brano stesso:  meta(l)musicalmente parlando, infatti i Netri qui trattano  appunto del rock e dello stile di vita che gli è connesso, togliendosi di dosso qualche sassolino dalla scarpa.

In “Cos player mon amour” la band si cimenta con qualche parola in francese, il che fa non poco contrasto con lo scaraventarsi delle chitarre elettriche da una parte all’altra delle casse, senza che ci sia il tempo per capire dove ci stanno portando; e giusto il tempo di respirare per poi passare ad un po’ di sana ironia, frammista al sarcasmo di  “AL MIO FUNERALE”, la morte affrontata senza quell’inquietudine, senza quel terrore o senso di vuoto che di solito pervade molti testi tra il rock e il metal: i Netri e Laredo sono capaci di ridersela anche in questo caso, grazie a del buon rock che permette di parlare di tutto con un certo distacco, ma con il giusto coinvolgimento.

Il commiato finale invece,  è un distendersi di toni, sensazioni…frammenti di labili sospiri di rock melodico, una ballad in perfetto stile anni’80, di quelle che si avvinghiano le corde  del cuore e non ti lasciano respiarre, se non nell’intermezzo tra una battuta e l’altra, aspettando quel giro di basso che dall’inizio scorre per tutto il brano amplificando il senso di raccoglimento.

Sonia Bellin

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